mercoledì 11 agosto 2010

SURF HIPPY


Ho trovato questo articolo molto interessante sia perchè ovviamente parla di Jhon Peck ma soprattutto perchè evidenzia come il surf è un mondo dove si possono fare delle scelte che cambiano la vita .....

In quell’estate del 1962, in California, la vita per i giovani era ancora molto semplice. Stavi con i greasers o con i surfers. I primi li riconoscevi per i capelli scuri, impomatati, l’aria pallido metropolitana, i giubbotti preferibilmente di pelle. I secondi li identificavi per i capelli biondi bruciati dal sole, la perenne abbronzatura, bermuda e camicia svolazzante di due taglie più grande. I greasers guidavano auto superlucide, supercromate, super rombanti; i surfers giravano con giardinette arrugginite dal salmastro, con tavole da surf che spuntavano dai finestrini posteriori.
All’inizio era tutto molto semplice, appunto. La colonna sonora era Good Vibrations e, intorno, la vita era in stile graffiti americani, come quella immortalata, anni dopo, da George Lucas nel film omonimo. I capelli dei ragazzi erano corti, le gonne delle ragazze erano lunghe e svolazzanti. La verginità era ancora un valore morale.
L’America, la verginità la perderà l’anno seguente a Dallas, Texas, quando John Kennedy, il presidente ragazzo, verrà ucciso non si sa ancora da chi. I capelli dei ragazzi si faranno sempre più lunghi e le gonne delle ragazze sempre più corte. La guerra in Vietnam farà il resto. La ribellione dilagherà per tutto il Paese e niente sarà più come prima. La rivoluzione avrà l’aspetto dei figli dei fiori, delle droghe, dell’acido e delle tavole da surf in fiberglass, sempre più facili da maneggiare, sempre più economiche.

John Peck, leggenda vivente nel mondo del surf californiano, era il tipico rappresentante di quella nuova razza che sposava la cultura hippy e la cultura della spiaggia. A 15 anni scoprirà che il surf ce l’aveva nel sangue. La sua prima onda l’aveva cavalcata, appunto, nel 1959 con una tavola di legno di balsa sulla spiaggia di Coronado, a San Diego. E fu la rivelazione della sua vita. Subito dopo, suo padre, militare di carriera, fu trasferito alla base navale di Waikiki, nelle Hawaii e la famiglia Peck si stabilì accanto alla mitica spiaggia di Queen Surf. Il ragazzo si ritrovò, all’improvviso, immerso nella più avanzata e sofisticata cultura surfistica al mondo. «Waikiki era il paradiso», ricorda John Peck che incontriamo a Malibu a bordo del suo furgone Volkswagen giallo, reliquia del periodo dei figli dei fiori. «Allora non c’erano molti turisti e neanche troppe costruzioni. La spiaggia era tutta nostra. Buddy Boy Kaohe era il re di Queen Surf. E potevi incontrare miti come Ah Choy, BK, Rabbit e Joey Cabell».


Il mito, oggi, è lui, John Peck, surfista mistico, hippy gitano, guru non violento, che dice di parlare con Dio, pratica lo yoga, vive con un sussidio statale e per arrotondare le entrate dà una mano ad un amico che ripara auto. E dire che negli anni Settanta era finito al quinto posto nella lista dei dieci maggiori ricercati dalla polizia federale americana. Di quei guai con la giustizia non ama parlare molto, resta sul vago, dice cose sconnesse, come il fatto che Nixon avesse messo una taglia sulla sua testa perché, all’epoca, viveva in una comune maoista e il potere lo voleva vivo o morto. Dice: «Facevo tutte quelle cose che la polizia federale considerava comuniste, rivoluzionarie, sovversive, roba da alto tradimento». Una volta viene arrestato per aver “liberato” un’intero carico di pane che era stato depositato di fronte ad un fornaio di Wailuku per distribuirlo alla gente del paese. Un’altra volta “libera” un carico di droga e lo regala alla comunità hippy della zona. Questa volta non sono solo i federali ad avercela con lui, ma anche gli spacciatori. Come fece a cavarsela? John si trincera dietro: «Ero protetto dallo scudo di Cristo». E quando non è Cristo è Dio direttamente a proteggerlo o a parlargli come una volta ad un concerto di Jimi Hendrix o come quando Dio gli disse che doveva uscire dalla prigione di massima sicurezza dove lo avevano rinchiuso i federali. Lui dice di essere scappato cinque volte di prigione usando tecniche yoga che lo rendevano invisibile. Fatto sta che, alla fine, John Peck finì all’ospedale per malattie mentali dove fu deciso di ritirare tutte le accuse contro di lui e far partire la richiesta per una pensione di invalidità come disabile mentale.

Se John Peck avesse continuato sulla strada del surf professionistico oggi sarebbe probabilmente miliardario grazie alle sponsorizzazioni del settore e all’invenzione di un tipo particolare di tavola da surf che porta il suo nome: “Peck penetrator”. La stoffa del campione ce l’aveva fin dal primo momento. Lo stesso anno in cui aveva imparato a scorazzare sulle onde arrivò quarto nella gara annuale di Makaha, nelle Hawaii, mentre nel 1964 in una gara che si teneva a Malibu, arrivò secondo dietro Joey Cabell, un campione locale. Come se non bastasse i lettori della più importante rivista di surf lo votarono fra i primi dieci migliori surfisti della California. Il problema, però, era che John Peck presentava segni sempre più evidenti di insoddisfazione esistenziale. «Fu allora che entrai nel mondo della controcultura, Scoprii la marijuana e le altre droghe. Non ero esattamente dal lato giusto della società».
Oltre al surf e alle droghe l’altra grande scoperta di John Peck fu l’allora emergente movimento di “espansione della coscienza” e l’incontro con uno dei suoi esponenti, un guru locale: «Era l’immagine di Cristo. Rimasi folgorato dall’espressione profonda dei suoi occhi. Gli chiesi di andare a vivere da lui e finimmo per trovare un accordo: gli avrei insegnato a fare surf in cambio di una stanza».


In questo periodo John fu introdotto all’esperienza dell’Lsd e di altri acidi che rafforzarono sempre di più la sua esperienza mistica. Era anche il tempo in cui John si unì alla “fratellanza” – The Brotherhood – un network internazionale nato a Laguna Beach, California a metà degli anni Sessanta e che si chiamava originariamente “The Brotherhood of Eternal Love”, la fratellanza dell’amore eterno. Membro di spicco era Timothy Leary, il guru dell’Lsd recentemente scomparso. I fratelli facevano largo uso di sostanze psichedeliche che mischiavano a ideali di vita presi in prestito da religioni orientali, il tutto cementato da un codice di amore universale e di mutuo soccorso. Molti membri della fratellanza erano surfisti che, all’occorrenza, durante i loro viaggi alla ricerca dell’onda perfetta si trasformavano in corrieri della droga, attività con cui si mantenevano e che permetteva loro di non fare altro nella vita che cavalcare onde. Col tempo la fratellanza degenerò in una vera e propria rete di distribuzione di droghe pesanti il cui obiettivo non era l’amore universale ma il più prosaico far soldi.

John, cosa vuol dire oggi essere un surfista e in particolare un surfista hippy? «Un surfista, questo vale per tutti, vive la propria vita in relazione ai flussi dell’oceano, in particolare le onde e il movimento dei fondali causato dalle onde stesse in pieno oceano. É uno stile di vita che si basa sulla consapevolezza della relazione che c’è fra il vento, l’acqua e le maree. É l’essere in sincronia con tutto questo. É esserci quando le onde migliori cominciano a dipanarsi, accompagnate dalle migliori condizioni di vento. E tu cavalchi la cresta dell’onda. È uno stile di vita in sintonia con il creatore, uno stile di vita salutista e, cosa da non disdegnare, estremamente divertente. I surfisti, per loro caratteristica, sono molto territoriali e difendono aggressivamente le loro zone di costa e non amano troppo che gente estranea invada il loro territorio. Sono capaci di crearti problemi se non rispetti il loro regno. Questi, però, non hanno niente a che vedere con gli hippies. I surfisti hippie discendono, come ideali, dai primi surfisti, gente che viaggiava e si spostava in continuazione da un posto all’altro nella ricerca delle onde migliori e abbandonavano certe zone diventate troppo popolari, affollate di gente che non aveva niente a che vedere con il loro stile di vita. Tutto questo peregrinare avvicinava il loro stile di vita a quello degli zingari. Che è poi anche il mio stile di vita. Qui intorno a Los Angeles, per esempio, andavamo d’inverno a Rincon, a sud di Santa Barbara, e d’estate battevamo le spiagge di Malibu. Io sono stato uno di quei surfisti zingari che viaggiava dalle Hawaii al Perù e dal Messico alla costa dell’est degli Stati Uniti alla ricerca delle onde migliori. É così che sono diventato il primo campione mondiale di surf. A quel tempo c’era molta oppressione nelle coscienze della gente e c’era grande bisogno di liberazione. Era una cosa che sentivamo molto soprattutto qui in California. Fu sempre a quel tempo che cominciai la mia ricerca spirituale, volevo capire cosa lega l’universo alle cose che ci circondano. Girai sempre di più, diventando sempre più zingaro. Ad un certo punto ho persino abbandonato il surf e la posizione di influenza che avevo, a quell’epoca, sul movimento. Molta gente che mi stimava seguì il mio esempio. Io volevo arrivare a vivere come gli Hindu dell’Himalaya tanto che, ad un certo punto, tutto quello che possedevo era un costume da bagno. E io andavo in giro proprio così, con solo un costume da bagno. Capitava che qualcuno mi offrisse in prestito la sua tavola da surf e, allora, mi buttavo in acqua, cavalcavo le onde ed ero felice. Fu questo mio stile di vita che mi mise in serio contrasto con il governo perché, dicevano, non davo il buon esempio. La gente lasciava il lavoro, le case e si riversava a vivere nelle strade e il sistema veniva bellamente scavalcato, la gente non comprava più, ma barattava le cose. Fu così che nacque la cultura delle comuni e io ero un po’ al centro di tutto questo. In fondo non era che fossi contro il governo. Ero piuttosto un disilluso, uno a cui non piaceva troppo quello che stava succedendo nel Paese. Io ero contrario ad andare in giro per il mondo a uccidere la gente, ma non ho mai protestato contro il Vietnam, a dire la verità non credo nel concetto di protesta. Credo che non serva a niente, che sia una totale perdita di tempo. Penso piuttosto che uno debba seguire le proprie estasi, fare ciò che lo rende felice ed essere un esempio per la comunità». Oggi cosa ti rende felice? «Essere di aiuto agli altri. Fare surf e yoga dove, come e quando posso!».

fonte www.claudiocastellacci.com